La
giovane destra riconosce nella tutela e affermazione della propria
identità nazionale il cardine attorno a cui ruota un contesto sociale,
nel riconoscimento dell’appartenenza l’antidoto a un mondo selvaggio e
barbaro che ci vorrebbe tutti uguali da Roma a Tokyo, da Pechino a New
York: sradicati, privi di un’eredità storica e di un portato culturale
specifico, solo individui consumatori da una parte all’altra del
pianeta.
Identità contro mondialismo, specificità culturali contro
omologazione planetaria. Sono le sfide che abbiamo di fronte per
restituire innanzitutto al nostro popolo il senso e l’orgoglio
dell’appartenenza.
Questa sfida si combatte su più fronti: ovunque vi sia un’identità
minacciata essa va tutelata e difesa dai molti nemici che, nelle
contraddizioni del nostro tempo, stanno negando valore ai popoli e alle
culture, con il rischio concreto di portarle all’estinzione. Abbattere il
muro del mondialismo si può. Innanzitutto solidarizzando con tutti i
popoli oppressi, facendo emergere le dittature tollerate in quanto utili
ai fini espansionistici delle multinazionali; poi mantenendo forte il
legame con la propria storia e le proprie radici nei contesti scolastici
e comunicativi; inoltre dando forza e vigore alla rinascita
dell’orgoglio nazionale anche nelle politiche industriali e del lavoro;
infine tutelando e promuovendo la grandiosa bellezza delle nostre
specificità, delle arti e delle produzioni, che tutte insieme
contribuiscono a definirci come popolo nella sfida globale che abbiamo
di fronte.Gioventù Italiana è il movimento giovanile che vuole cambiare
questa società insieme al Movimento politico La Destra, di cui ne è
espressione vivace e profonda.
A partire dagli ultimi decenni del novecento la politica è entrata in crisi.
Una crisi che ha investito e continua a investire trasversalmente le tradizionali aree di riferimento ideologico e culturale.
Nello specifico italiano, la crisi ha investito la politica sostanzialmente su due fronti:
1. la “dimensione del politico” ha trovato sempre meno spazio nelle
dinamiche sociali, lasciando campo aperto ad altre forme di potere e di
decisione che esulano dalla rappresentanza popolare e riducono la
politica a mera visione di amministrazione dell’esistente e gestione del
potere. A fronte di un popolo chiamato ogni cinque anni a votare,
decisioni che investono la nostra nazione e l’intero mondo vengono prese
quotidianamente da poteri che non si confrontano con il popolo e sono
per loro natura estranei alla democrazia. I grandi gruppi finanziari, le
lobby economiche e i centri di potere culturale e mediatico, e non
ultima la Banca Centrale Europea, influenzano la vita dei cittadini in
modo sicuramente maggiore rispetto alle scelte cui sono chiamati i
rappresentanti politici nelle sedi istituzionali.
2. le vecchie forme partito rimodellatesi all’indomani della fine del
bipolarismo Est-Ovest e della crisi della partitocrazia della prima
repubblica sono state incapaci di rappresentare una adeguata risposta ai
cambiamenti sociali ed economici imposti dalla globalizzazione in
sintonia con i bisogni reali del popolo ed in particolare delle giovani
generazioni.
A fronte di questa crisi – che è sistemica e non temporanea –
assistiamo alla nascita di forme organizzative e mediatiche tese a
cavalcare l’antipolitica e a identificare nei partiti oggi esistenti e
nei loro rappresentanti maggiori la causa esclusiva del declino.
Se noi per primi riteniamo che una politica esclusivamente dominata
dalle oligarchie verticistiche dei partiti sia una casta che legittima
la propria sopravvivenza attraverso i privilegi, il clientelismo,
l’affarismo, l’utilizzo privato della res pubblica, ciò nondimeno
riteniamo che il male dell’Italia sia frutto anche di altre caste,
spesso superiori a quella partitocratica in termini di prevaricazione e
di mortificazione degli interessi generali.
A fianco della casta politica esistono infatti le caste
dell’informazione controllata, del capitalismo assistito e parassitario,
del triplice sindacalismo dedito all’esclusiva autotutela della propria
burocrazia, dei baronati universitari, delle toghe politicizzate che
quotidianamente interferiscono sul potere legislativo, degli interessi
speculativi dei cartelli bancari e delle assicurazioni.
Sono tutti questi soggetti – le caste, non soltanto una casta – a
dover diventare il bersaglio di un moto popolare, che cresce di pari
passo alla crisi sociale del Paese e al rischio di argentinizzazione
dell’Italia, e che non può essere regalato all’antipolitica.
La risposta alla crisi del sistema non è cavalcare un qualunquismo antipolitico, ma è la rigenerazione della politica stessa.
Rigenerazione che non può non passare attraverso la nascita di un
nuovo movimento giovanile che noi, riconoscendoci negli scopi, nei
valori e nei principi del movimento politico ‘La Destra’, vogliamo oggi
offrire a questa generazione affinché riscopra il gusto di una militanza
politica che non si svilisca nel carrierificio congressista di cui sono
oggi vittime tutte le organizzazioni giovanili dei partiti politici
italiani.
Ci rivolgiamo a tutti coloro che sentono forte il bisogno di
impegnarsi in un percorso di rinnovamento in nome dei valori e dei
principi della nostra più profonda tradizione culturale, che non
vogliono arrendersi ad un destino già scritto da comprimari e strumenti
al soldo del cinismo oligarchico imperante, e vogliono invece riscoprire
il gusto di una militanza ideale e disinteressata.
Chiamiamo a raccolta quei ragazzi che, nonostante tutto, credono
ancora che ci siano valori e scopi per cui valga la pena schierarsi,
battersi e rischiare; un futuro da costruire, sognare e immaginare; un
presente da reinventare con l’entusiasmo della libertà e la libertà
delle azioni; e – soprattutto – una Rivoluzione italiana da vivere
quotidianamente.
La storia anche recente del nostro Paese ci ha insegnato che il
divario tra società e partiti aumenta quando la politica è debole.
La debolezza della politica comporta l’incapacità di decidere e, per
autodifesa, l’immediata chiusura a riccio e l’interruzione del rapporto
di complementarietà tra rappresentante e rappresentato: la democrazia
diventa partitocrazia e la partitocrazia si costituisce in oligarchia.
Così nasce la “casta”. Quando ciò accade, come oggi sta accadendo,
diventa ancora più difficile costruire un rapporto fecondo tra le
giovani generazioni e la politica.
Se il sistema della prima repubblica è crollato sotto le macerie di
Tangentopoli, in realtà da molto prima, e la destra lo aveva predetto
sul finire degli anni ’80, si avvertiva nella società italiana una
crescente mobilitazione contro la corruzione dei partiti e contro il
sistema di potere che questi avevano creato.
Non a caso, riportandosi a quello schema, il fronte dell’antipolitica
militante paventa (ma in fondo brama) un ritorno al 1992-93.
L’intento dichiarato è quello di rivivere i giorni in cui la società
si mobilitava contro il sistema partitocratrico determinando la fine del
pentapartito e facendo cadere l’infamia su esponenti politici marginali
e di primo piano.
I professionisti dell’antipolitica (a volte troppo simili a quanti si
esercitano in un certo manicheismo antimafia) sperano in una nuova
rivolta morale contro l’immoralità della politica e vorrebbero riportare
il cittadino al centro della vita istituzionale.
Riteniamo che, determinando le condizioni di un nuovo 1992, non si
potrà completare la transizione verso un sistema politico partecipativo e
pulito. A nostro avviso, solo riportando i giovani alla politica e
producendo un vero ricambio generazionale, sarà possibile costruire una
Italia coesa e protagonista dell’integrazione europea.
Non è quindi un caso se il nostro movimento giovanile nasce il 9
novembre, giorno che ha consegnato alla storia il crollo del muro di
Berlino.
È una scelta precisa – 18 anni dopo – per riaffermare quei valori
tradizionali dello spirito a cui facciamo riferimento e che affondano le
radici nella nostra storia millenaria, e nel sogno mai spento di una
Europa realmente libera e indipendente che si affermi nello scenario
globale come principale polo di riferimento nel secolo appena iniziato.
Affinché non sia l’Europa mercatista delle banche e delle burocrazie di
Bruxelles.
E se è vero che il 9 novembre è realmente quella data storica che con
il crollo del Muro di Berlino, sotto la spinta rivoluzionaria di un
popolo ansioso di riconquistare la libertà perduta nel 1945, ha segnato
la fina di un’epoca e l’inizio di una lunga transizione, è ancor più
vero che oggi resistono ancora altri muri che aspettano di essere
abbattuti. È questo il nostro obiettivo: abbattere i muri della povertà,
del precariato, della disoccupazione, dell’ignoranza, dell’illegalità,
dell’omologazione culturale, del mondialismo globalista.
Il richiamo al ’68 porta alla memoria un immaginario culturale che si
discosta dal consueto campo di battaglia della destra. Tuttavia, esso
rappresenta anche una chiara critica a un certo modo di concepire la
sudditanza psicologica del mondo giovanile verso le esigenze dei grandi:
chi conosce la storia d’Italia sa che i primi vagiti del ’68 – prima
che l’illusione di quella generazione si bruciasse sul fuoco degli anni
di piombo, si consumasse nella disperazione delle tossicodipendenze e si
annullasse nell’ideologizzazione forzata del marxismo-leninismo – non
furono sostenuti solo da sinistra ma vi fu una vera e propria
condivisione generazionale, determinata dalla mobilitazione culturale e
intellettuale di milioni di giovani in tutto il mondo. Anche a destra,
anche in Italia, anche a Roma.
Richiamarsi a quella esperienza, di mobilitazione e di vivacità
culturale, non significa condividere l’esperienza sessantottina in
Italia e alcune sue drammatiche conseguenze. Significa, invece,
richiamare una intera generazione alla partecipazione sociale e farlo in
nome dei nostri valori.
L’Italia resta il fanalino di coda d’Europa anche sul fronte della
scolarizzazione. Il nostro è il paese con il maggior numero di abbandoni
scolastici e con la più bassa percentuale di cittadini diplomati.
Dietro l’abbandono
scolastico, insomma, esiste lo spaccato di una società complessa dove le
classi deboli restano deboli e le forti diventano sempre più forti. Uno
scompenso, questo, che crea disuguaglianze e che mortifica l’individuo.
Sul fronte scolastico le riforme che si sono susseguite in questi
anni non sono riuscite a cogliere nel segno di aumentare il livello di
preparazione dei giovani. Anzi, l’assenza di politiche per la
meritocrazia, insieme all’ondata di un certo buonismo che ha voluto
innalzare senza controllo il numero dei promossi, ha livellato in basso
il grado di preparazione della scuola media superiore.
Nessuna riforma ha affrontato il nodo centrale del dialogo fecondo
tra scuola e mondo del lavoro. Non si è compreso di puntare sulla
istituzione di tavoli permanenti, magari affidati alle Regioni, nei
quali affrontare la scelta del modello di istruzione da adattare a ogni
territorio, interpretandone la vocazione e trasmettendo ai giovani la
cultura dell’identità locale come motore di un nuovo modello di
sviluppo.
Se queste riflessioni conducono alla necessità di una riforma della
scuola che ponga al centro il merito e spinga all’eccellenza, nel mondo
universitario questa esigenza diventa crescente giorno per giorno.
Le università italiane, a dispetto della propria tradizione, oggi
vivono una crisi senza precedenti. In uno alla crisi della scuola
superiore, il mondo accademico sconta il pressappochismo di riforme non
andate ancora a regime che, di anno in anno, hanno reso sempre più
confusa la vita degli studenti universitari.
L’Università italiana appare come una casta chiusa, bloccata da
logiche baronali che hanno trasformato persino la Conferenza dei Rettori
in un organo politico guidato con metodi sindacali e utile solo a
tutelare posizioni di rendita. La crisi dell’università è
strutturalmente figlia del nepotismo che impedisce di trasformare i
nostri Atenei in luoghi di ricerca scientifica aperti alle migliori
intelligenze.
In questa crisi evidente, che ha incidenze nette sulla capacità dei
sistema-paese di farsi strada nel mercato globale, la politica ha un
peso insopportabile. Le università e i consorzi universitari non nascono
per rispondere a esigenze precise del mercato del lavoro e per
interessi territoriali, ma sono imposte da logiche clientelari e di
spartizione.
A nostro avviso,
Esiste poi, e non può essere trascurato, il tema del rapporto tra
istruzione pubblica e istruzione privata, tanto scolastica quanto
universitaria. Un movimento giovanile di destra non può che ritenere
l’istruzione come un diritto e un dovere. Questo diritto e dovere deve
essere tutelato dallo Stato che, come vuole la nostra Costituzione, deve
mettere i propri cittadini nelle condizioni di formarsi culturalmente e
professionalmente. Per tale ragione riteniamo essenziale che, prima di
sostenere il settore privato, lo Stato provveda a investimenti seri
sulla istruzione pubblica.
Scegliere la via del merito significa anche dichiarare guerra a tutti
i “diplomifici” che, a pagamento, consegnano gli stessi titoli che
altri hanno conquistato con il sacrificio dello studio. Ciò vale per il
settore scolastico, ma oggi esiste una vera emergenza nell’ambito
universitario: dalle università telematiche a quelle private, non si può
più tollerare l’esistenza di circuiti paralleli che determinino
condizioni di privilegio per coloro che, avendone la disponibilità,
sostituiscono il cervello con il portafoglio.
La scuola e l’università devono tornare a essere, come nella migliore
e invidiata tradizione italiana, il motore della formazione dell’uomo e
del suo senso civico. Per far questo occorre compiere scelte di
coraggio: tagliare ogni forma di privilegio e recuperare la giustizia
del merito.
La crisi economica nazionale, insieme alla recessione internazionale e
agli effetti dell’entrata in vigore della moneta unica, ha prodotto un
pauroso innalzamento della soglia della povertà.
La nostra vocazione sociale ci impone una vera mobilitazione per
evitare quello che è stato definito come il rischio di
“argentinizzazione” del nostro Paese. Mai dobbiamo dimenticare che la
povertà è anche effetto della globalizzazione economica. Ed infatti, la
nostra risposta alla crisi sociale del Paese resta inscindibilmente
legata nella riscoperta di una economia basata sui valori comunitari che
caratterizzano la economia sociale di mercato, per non dimenticare le
fasce deboli della società.
Non c’è futuro per i giovani senza la possibilità di entrare nel mercato del lavoro.
Non c’è futuro per il Paese se i giovani non riusciranno a diminuire
drasticamente il tempo di attesa prima di trovare lavoro. E, a un
movimento a forte vocazione identitaria e territoriale, non può sfuggire
come il problema investa con maggiore incidenza (in alcuni casi il 50%
della popolazione giovanile) le aree del Mezzogiorno.
La difficoltà di trovare occupazione appartiene tanto ai giovani
laureati quanto a coloro che hanno deciso di immettersi direttamente nel
mercato lavorativo.
La destra giovanile considera il lavoro non soltanto un diritto dei
cittadini che va tutelato in ragione della rilevanza sociale. Per noi,
il lavoro è un dovere che compete su tutti i cittadini per far crescere
il sistema-paese.
Ciò premesso, siamo convinti che le politiche fin qui adottate per
muovere l’economia del lavoro, facendo crescere il numero degli
occupati, non siano riuscite nel compito. Non c’è dubbio che la legge
Biagi abbia avuto il merito di contrattualizzare la posizione lavorativa
di molti giovani, tuttavia ha portato con sé il dramma della
precarizzazione del lavoro.
A ciò si aggiunga che molto raramente i giovani riescono a valersi
del proprio titolo di studio, apportando così l’ulteriore danno della
introduzione nel mercato del lavoro di giovani non professionalmente
formati per il lavoro che sono chiamati a svolgere e della
mortificazione individuale di quanti, pur laureati o diplomati, sono
costretti a svolgere mansioni diverse da quelle per le quali si sono
impegnati nello studio.
Tale oggettiva situazione è stata determinata dalla incapacità della
politica di determinare un modello di sviluppo interprete delle diverse
identità locali. È perfettamente inutile prendersela con le normative
che incidono sul tipo di contratto per il lavoratore, se non si è stati
capaci in oltre mezzo secolo a scegliere per ogni area del paese un
modello di sviluppo utile per ciascun territorio. Si è preferito,
invece, sperperare milioni e milioni di euro di aiuti di Stato (oggi
anche dell’Ue) regalandoli alla grande e piccola impresa, senza produrre
investimenti stabili e in grado di apportare lavoro.
Solo un’economia capace di vivere nel territorio potrà poi essere
sostenuta da una legislazione adeguata sul fronte contrattuale.
Altrimenti, la precarietà del sistema del lavoro obbligherà milioni di
giovani, negli anni a venire, a ritardare ulteriormente la propria
autonomia economica e familiare. È questa la nostra risposta e la nostra
proposta per vincere la precarietà riformando nel profondo il nostro
sistema economico nazionale.
Accanto a una riforma strutturale come quella da noi auspicata,
occorrono alcune significative iniziative. Ad esempio è certamente utile
introdurre una fiscalità di vantaggio per le imprese che scelgono di
stabilizzare i lavoratori precari e che offrono ai giovani la
possibilità di un lavoro sicuro, formandoli. Allo stesso modo è
necessaria una seria riforma degli ordini professionali e dell’accesso
alla libera professione.
Non c’è sviluppo senza legalità, non c’è futuro se si è schiavi della mafia.
Il 1992 non è stato soltanto l’anno di Tangentopoli e della rivolta
contro la politica e il sistema dei partiti. Profittando della debolezza
dello Stato, in quell’anno sono stati barbaramente uccisi uomini
coraggiosi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, le cui vite restano
un punto di riferimento inalienabile per una destra giovanile che creda
nel valore della legalità.
Oggi il nostro Paese, in ogni porzione di territorio, è ostaggio di
diverse specie di criminalità, organizzata o clandestina, occasionale o
abitudinaria, che rende sempre più difficile la vita delle famiglie e
delle imprese. C’è, poi, la sensazione che lo Stato sia impotente di
fronte alla crescente criminalità e che l’impunità dei malviventi sia
garantita da una legislazione che non consente la tassatività della
pena.
Accanto a questi fenomeni macro e microcriminali, esistono altre
situazioni che stanno prendendo corpo nei comportamenti di ogni giorno:
il bullismo, la violenza minorile, lo spaccio di stupefacenti, la
criminalità familiare.
C’è poi, ed è il sentimento aberrante più grave, una certa avversione
verso le forze dell’ordine e il diffondersi sempre maggiore di
comportamenti arroganti, tendenti alla sopraffazione dell’individuo.
Eppure, i giovani di Addiopizzo, i ragazzi di Locri, le carovane
della legalità, i ragazzi di Palermo che sono scesi in piazza contro la
mafia, gli imprenditori che si ribellano al racket, sono l’esempio
vivente di come la società possa
C’è una generazione spinta al conformismo che, complice la
televisione, sceglie modelli assai discutibili e abbandona ogni sussulto
etico e morale. Non vogliamo spingerci fino alla dura critica che Papa
Benedetto XVI ha condotto al relativismo etico. Tuttavia è un fatto non
opinabile, confermato da ogni indagine sociologica, che insieme alla
crescente disaffezione verso la politica, la generazione dei reality
abbandona i tradizionali valori di riferimento della nostra società.
Troppi giovani sono vestiti tutti uguali, depauperati
intellettualmente, piegati alla logica del mercato, spinti verso il
consumo di droga, allontanati dalla cultura del sacrificio. Sono i figli
di una società malata, una società che non offre esempi e modelli
comportamentali da seguire. Questa incapacità di determinare esempi
forti colpisce a maggior ragione la politica, oggi percepita come lo
strumento per ottenere facilmente quanto altri sono costretti a
conquistare con sacrificio. La politica è percepita come distante e
sporca. E troppe volte quest’immagine coincide con la realtà.
Siamo convinti che combattere l’omologazione sia possibile solo
riscoprendo la politica dei valori. Questo modello è stato seguito dalle
centinaia di associazioni, religiose e sociali, che si occupano di
volontariato, le quali meglio di ogni altra struttura hanno saputo
costruire un dialogo fecondo con una parte significativa della
popolazione giovanile.
Negli anni difficili la militanza politica, ispirata a valori
inossidabili, riusciva a mobilitare le coscienze prima ancora delle
singole persone. Oggi, in una società che non conosce più l’indignazione
né il pudore, non a caso la mobilitazione giovanile è sempre più rara.
Le cause di questa crisi della società sono le più diverse.
Certamente la globalizzazione economica ha determinato un’esasperata
logica del mercato che tutta fa e tutto assorbe. Ecco che le mode sono
diventate ossessioni e, troppo spesso, per ottenere capi firmati o per
condurre una vita modaiola hanno spinto centinaia di migliaia di giovani
nella braccia della delinquenza e hanno costretto le famiglie ad
affrontare ulteriori difficoltà economiche.
La destra giovanile ha il dovere di iniziare un percorso lungo e
difficile, certamente impopolare, per abbattere il muro
dell’omologazione giovanile e per restituire la generazione del domani a
una nuova cultura civica e del rispetto.
La lotta alla droga è e resta prioritaria, anche perché nel clima di
generale perdonismo e illegalità, sono molto pochi i ragazzi che si
rendono conto dei danni sociali ed esistenziali – enormi – causati dal
drogarsi e crescono giorno per giorno i consumatori di cocaina, extasy
ed eroina.
Tuttavia, solo uno sguardo disattento non coglie che dietro questa
diffusione così capillare delle sostanze stupefacenti si nasconde una
società malata (che è stata definita un Coca-reality-show) che chiede
disperatamente ascolto.
Dai nuovi schiavisti importatori di manodopera a basso costo fautori
dell’immigrazione incontrollata ai propugnatori di modelli sociali
indistinti basati sul consumo, dai nemici di ogni appartenenza culturale
e religiosa agli esaltatori cosmopoliti del villaggio globale fino agli
assatanati “mercatisti” che in nome dell’arricchimento chiudono i
propri occhi benpensanti di fronte a tragedie di intere comunità e
popoli (dalla Birmania alla Cina all’Africa) causando peraltro non pochi
danni al sistema sociale e produttivo dell’Europa.
Per essere fedeli a questo compito dovremo saper intercettare, non
solo grazie ai mezzi di comunicazione di massa ma con il gusto della
militanza, il dissenso giovanile e dovremo riuscire a trasmettere valori
profondi che segnino la differenza tra noi e quanti si sono adeguati ai
modelli dominanti e si sono resi incapaci di trasgredire ai dettami del
pensiero unico.
Lo scontro in atto è tra identità e omologazione.
Noi abbiamo scelto la via dell’identità.
Sappiamo di scegliere una strada in salita, ma dalla nostra parte c’è la consapevolezza di stare dalla parte del giusto.